Riprende un verso della poesia Musée des Beaux Arts, di W.H. Auden il titolo del progetto fotografico di Fiorella Ilario realizzato tra il 2015 e il 2017 a Roma. Decisiva l’allusione a quel componimento, che attraverso la figura mitologica e simbolica di Icaro, descrive la caduta il grido la fragilità e la solitudine dell’individuo universale (dunque anche di quello contemporaneo) messo di fronte al proprio incommutabile destino e alla sorda indifferenza di quegli “angoli della vita che ignorano sereni il disastro”(Simic). La contraddittorietà del contemporaneo, l’ambigua oscura avvisaglia del post umano, lo smarrimento e la insoddisfazione per un avvenire fagocitato dall’irreversibile abbaglio del progresso ad ogni costo, la complessa relazione col sacro e l’allusione a quella spesso fraintesa con l’arte, in venti scatti realizzati nella Piazza San Pietro e al Palazzo delle Esposizioni. L’’intreccio la sovrapposizione la trasfigurazione di una narrazione ideogrammatica che dall’antico si rifrange nel contemporaneo e che si risolve in una sequenza di ombre fisiche ma pure interiori-‐ le ombre di una società che inscena il paradosso dell’abuso tecnologico di algoritmi e inesauribili memorie informatiche, di dati spesso ingannevoli o privi di ogni vaglio culturale, nella svagata dimenticanza della stessa memoria umana. Il lavoro assume un valore di mediazione tra un dualismo normativo ed esistenziale. Per i luoghi e per i modi della rappresentazione, che si avvalgono di una cifra oscillante tra la struttura di un convenzionale iconografico e la rappresentazione di un proprio doppio di astratta speculare rielaborazione, il progetto è denso di suggestioni e di rimandi letterari. Ma perché Icaro? Nel dipinto di Pieter Bruegel descritto da Auden, possiamo solo intravederne il battito delle gambe, l’attimo prima di sprofondare in mare e di annegare. Il paesaggio intorno incurante, incuranti i personaggi che lo abitano. Nessuno sembra udire il richiamo disperato, l’invocazione, il pianto, l’urlo abbandonato. Ciascuno immerso nel proprio presente, distratto impassibile impietoso. Dal primo verso Auden ci avverte che, “gli antichi maestri non si sono mai sbagliati (…) hanno capito che il terribile martirio deve compiersi in un angolo, a modo suo” e che la sofferenza umana si consuma mentre bambini spensierati pattinano sul lago e la lussuosa nave continua a veleggiare implacabile. Anche l’attualità dei nostri porti ce lo rammenta. Eppure Icaro non è soltanto lo sventurato straniero che precipita da una sgradita lontananza nelle nostre sorvegliate acque. Il viandante in fuga col folle sogno inabissato di una ascensione che troppo spesso si tramuta in naufragio e morte. Nella società contemporanea oggettivamente asservita alle inconfutabili regole degli oligopoli del web e dei social, letteralmente sommersa dal forsennato fluire di immagini e notizie, dove il primo e più evidente esito è l’annientamento dei tempi e dei modi della elaborazione della sofferenza e della perdita, Icaro siamo noi. Quel volo ci ricorda la sua ribellione alla prigionia tra le asfissianti mura del labirinto-‐ sollecita il nostro bisogno di trasgressione alla persuasiva tirannia dei comportamenti convenzionali, riafferma la vocazione alla libera espressione del pensiero critico e divergente. Il pericolo della caduta è dopotutto sempre la condizione ontologica dell’essere, esposto al Nulla. Un rischio meno grave di molti altri ritenuti, nella sonnolenta acquiescenza imperante, utili e vantaggiosi. In termini di territori da sorvolare, ne va di noi stessi. «Nella tragedia ci viene presentato il lato terribile della vita, lo strazio dell‟umanità, il dominio del caso e dell‟errore, la caduta del giusto, il trionfo del malvagio. […] Nel momento della catastrofe tragica sorge in noi, più chiara che mai, la persuasione, che la vita sia un grave sogno, dal quale dobbiamo destarci»
(A. Schopenhauer)
Firenze, luglio 2018
f.i.